La civiltà del ballo in Romagna

Un romagnolo che non sappia ballare il valzer non è un romagnolo

Dei “Balach”, una casata di gente originale che ne inventava una al giorno, si diceva in paese [a Cervia, n.d.r.] che fossero posseduti dal demone della danza. Il vecchio, detto “e Gagg”, per il fulvo colore della pelle e dei radi capelli, aveva chiamato le figlie Tersicore e Euterpe, spiegando agli amici che avrebbe voluto crescerle sacerdotesse del ballo e della musica […]. Un romagnolo che non sappia ballare il valzer non è un romagnolo, sentenziava spesso “e Gagg”. E del modo di ballarlo conosceva tutti gli stili; dal valzer stretto, girato su un soldo, si udiva dire, dei forlivesi a quello largo e strisciante dei cesenati, dal valzer intervallato da furiosi mulinelli dei faentini a quello lento e slanciato dei lughesi (1).
[…] I “Balach” avevano fatto del ballo il piacere più alto della loro vita. Il loro caso era l’indice rivelatore di un costume (2).

Così narra Rino Alessi, giornalista e scrittore cervese, in quello che è considerato il suo romanzo migliore, Calda era la terra, raccontando in una versione che indulge al bozzettismo, ma realistica ed efficace, vicende e peculiarità dell’ambiente della cittadina marinara fra Otto e Novecento attraverso la storia delle sue famiglie chiamate “casate”.
Rappresentata con fervore lirico e narrativo da poeti e scrittori, la passione dei romagnoli per il ballo è testimoniata, nell’evolvere del tempo, da eruditi, etnografi, antropologi. Il villano smascherato, trattatello secentesco dell’abate Cirelli su comportamenti e usanze dei contadini del riminese, riferisce “de festini e veglie dei villani” che con la massima intensità ricorrono nel carnevale e che si svolgono all’insegna del ballo, sono aperti a tutti e dove il maschio può scegliersi la dama che vuole, purché nubile: “I loro balli sono salti spropositati, e volate di vita sconcertate e ridicole, né mai ballano a tempo di suono, e chi è l’ultimo a terminare il ballo, quello è riputato il più bravo” (3). I balli sono intercalati dalle risse, innescate da pretesti di gelosia e contesa per le ragazze, sono veementi e feroci e non di rado si concludono con ferimenti e omicidi. Il tempo del carnevale contadino, anche nei secoli successivi, è quello in cui furoreggiano i balli, si contraggono i fidanzamenti, si “introducono nelle di loro case i suonatori e ivi si balla le notti intere” (4).
Studi positivisti sul carattere delle popolazioni attribuiscono ai romagnoli una “attrazione grandissima” nei confronti del ballo, ritenuta del tutto particolare e derivata dall’attitudine per il movimento: “Non solo nei giorni di festa, ma in tutte le ore di riposo si veggono per i prati, per i giardini pubblici, per le vie, ragazze che ballano, con uno slancio che colpisce” (5). L’antropologo criminale Guglielmo Ferrero si era trovato nello scorcio dell’Ottocento ad assistere ad una festa da ballo di un circolo cittadino cesenate, stigmatizzando poi la Romagna, nelle pagine de Il mondo criminale, come terra votata all’anarchia e alla sopraffazione. Nella descrizione della festa, si sofferma sulle pretenziose toilettes degli uomini e delle donne, sui frac e sui merletti da cui inesorabilmente trapelava la rozzezza romagnola e l’immancabile propensione e prontezza alla violenza, dato che sotto quei frac si celava probabilmente un arsenale di pistole e di coltelli. Il ballo appariva poi una vera e propria “ridda”,

un quadro insomma mezzo olandese e mezzo brantomiano, in cui l’orgia delle osterie di Amsterdam si mescolava con la brutale galanteria della corte di Francesco I […]. I ballerini abbrancavano le ballerine come avessero voluto rapirle per forza; stringendole forte sul petto, abbracciandole, sbattendole qua e là rudemente, colla faccia in fiamme. Barili di vino, montagne di polli e di pane sparivano; ballerini e ballerine, rossi in faccia con gli occhi lucenti divoravano avidamente dei mezzi polli, svuotavano le bottiglie ubriacandosi (6).