L’epopea di una musica da ballo chiamata liscio

Quando agli inizi del Novecento la tradizione classica del valzer comprendeva il viennese, lo scozzese, il francese e il boston americano, in Romagna ne esistevano già quattro stili diversi: il forlivese stretto e girato, il cesenate largo e strisciato, il faentino intervallato da furiosi mulinelli e il lughese lento e slanciato. Il valzer aveva già assunto un carattere spiccatamente romagnolo, che consisteva nel fare le terze, tre giri per ogni quarto di battuta, con l’arresto improvviso alla fine di ogni parte. Già dall’ultimo ventennio dell’Ottocento era iniziato il processo di sincretismo tra le danze staccate della tradizione e i nuovi balli di coppia. Processo che si sviluppa nel primo ventennio del secolo successivo con l’invenzione di nuove figure e movimenti. Dalle esibizioni e dalle sfide fra i ballerini più dotati nascono il giro a destra e a sinistra del valzer e i passi doppi, la saltata a destra della mazurca, i passi doppi e la saltata a sinistra della polca. In seguito vengono introdotti il valzer figurato con il giro finale della ballerina, i passi doppi e la saltata a sinistra della polca, la saltata della mazurca su una gamba. A differenza dello stile modenese, dai passi lunghi e slanciati e del bolognese “alla filuzzi”, con la piroetta e il frullone, i ballerini del valzer romagnolo non ruotano attorno alla pista ma eseguono le variazioni fronteggiandosi o girando velocemente su se stessi.

Anche in area emiliana erano sorte orchestrine di musica da ballo che avevano attinto e adattato i loro repertori alle nuove musiche di provenienza mitteleuropea. Alcune formazioni erano composte esclusivamente da ottoni, oppure da legni, o da mandolini, e nel classico “trio” della filuzzi predominava l’organetto. Qualcuna è scomparsa già nell’impatto con la prima guerra mondiale, altre si sono gradualmente esaurite nel secondo dopoguerra con la diffusione della passione per i balli all’americana. Il ballo popolare continua ad essere praticato riservatamente, controcorrente, rinchiudendosi in proprie dimensioni di scuole, di locali, di feste. E’ il caso del liscio ambrosiano e del liscio “alla filuzzi”, quest’ultimo connotato da uno stile molto particolare e articolato, quello più similare per complessità al romagnolo. Mentre però questi balli “sopravvissuti” non riusciranno a riemergere da una situazione di marginalità e di nicchia, negli anni ’60 la musica da ballo romagnola non solo si afferma come genere ma imbocca la strada dell’impresa, coniugandosi con il turismo di massa, l’industria delle vacanze e del divertimento. Saranno poi il successo e l’espansione di questo genere a portare a metà degli anni ’70 alla codificazione delle basi dei balli, adottate dalla Associazione nazionale Maestri di Ballo e alla costituzione della Federazione Danze Folk, alla Scuola Ballo Romagnolo e all’Ente Tutela Danze Folk Romagna, decretando l’ingresso del ballo liscio romagnolo nelle discipline sportive. Già dall’ultimo ventennio dell’Ottocento il ballo romagnolo aveva assunto prerogative precise. E’ il periodo legato alle esibizioni di ballerini di talento che trasferiscono nel ballo di coppia alcuni elementi delle danze staccate. Sino alla prima guerra mondiale gli stili perseguono una loro evoluzione e vengono tramandati oralmente, avvalendosi dell’attività di molti circoli sparsi nel territorio. Non a caso l’apprezzamento del genere musicale romagnolo va di pari passo con la creazione di un nuovo stile di ballo che attingeva alle antiche figure e variazioni.

La musica da ballo romagnola rappresenta una vicenda unica e incomparabile che al tempo stesso racchiude il percorso esemplare di una terra, di una regione come la Romagna che per un secolo e mezzo ha fatto proprio della musica da ballo una sorta di filo conduttore di molteplici aspetti e mutamenti delle espressioni sociali e collettive nel tumultuoso periodo di transizione alla modernizzazione e alla contemporaneità. Una vicenda che si eleva anche a paradigma nel panorama nazionale, per la speciale modalità con cui la Romagna ha scavalcato e recuperato un lungo periodo di immobilismo e arretratezza, divenendo sotto il profilo del conflitto politico e delle conquiste sociali un caso paradigmatico e, nel contempo, per ceti e governi dominanti e per la giovane nazione, una realtà anomala e sovversiva.

Se è vero, come sostiene l’autore, che la particolare diffusione in Romagna della musica da ballo è dovuta al legame e agli scambi esistenti fra orchestre teatrali, orchestrine da ballo, scuole di musica e bande municipali, è altrettanto vero che la Romagna costituiva terreno fertile per la sociabilità, edonistica e mondana, per l’associazionismo ricreativo e politico, vedendo moltiplicarsi i contesti, i luoghi, i calendari festivi, a partire dal periodo francese, che aveva incentivato la celebrazione di ricorrenze e di occasioni ludiche. La progressiva ascesa della classe borghese andrà di pari passo, soprattutto nella seconda meta dell’Ottocento, con il delinearsi di consuetudini come la vacanza, la fruizione del tempo libero, la cura e il benessere del corpo, dando vita alle stagioni balneari lungo la costa adriatica all’insegna della salute e del divertimento. Rimini esprime precocemente la sua vocazione di capitale della vacanza. Si balla sulla piattaforma, al Casino dei Bagni (che diverrà poi il Kursaal), in ville e villini, così come nelle altre località balneari emergenti della costa, Riccione, Bellaria, Cesenatico. Mentre trionfava il valzer, si ballavano ancora la quadriglia e i lancieri e, nota curiosa, si danzava il dancing, un ballo “nato sopra una aia di recente trebbiata, al chiaro della luna”: un ballo effimero ed estemporaneo, il cui nome però diventerà successivamente sinonimo dei locali da ballo più raffinati e diffusi, soprattutto in riviera. Già verso la fine dell’Ottocento e a cavallo dei due secoli, le cronache mondane dell’Ostenda d’Italia riferiscono di un clima spento nelle sale da ballo, così come l’atteggiamento delle persone che le frequentano, di donne che non trovano cavalieri, di uomini che preferiscono rimanere pigramente addossati alle pareti. Presto si accenderà la passione per i balli americani. All’inizio di ogni stagione vengono stampati i programmi delle feste da ballo, in cui si distinguono balli di gala, cotillon, balli in costume, o ispirati ai colori -in bianco, in celeste, in rosso…- abbinati a cene e seducenti attrazioni; maestri di ballo sono a disposizione per lezioni diurne, riservando per le serate le esibizioni di virtuosismo. Parallelamente, prima in ambito urbano, poi nelle campagne, fervevano movimenti e mutamenti politici e sociali concentrati nei sodalizi sempre più numerosi, con inevitabili ripercussioni sulle attività ludiche e ricreative, sulla celebrazione delle feste e ricorrenze del fitto calendario civile e laico. Verso la fine dell’Ottocento, con la nascita del partito repubblicano e di quello socialista e la conquista delle campagne all’ideale politico, si estende e si ramifica quel fenomeno associativo che nel periodo prerisorgimentale aveva fatto della Romagna un laboratorio nazionale. Sono le campagne, frequentando i luoghi più popolari del ballo sorti nelle città e sulla costa, a infiammarsi per quella nuova musica eseguita da orchestre e orchestrine che nascevano come funghi, tra cui eccelleva quella di Carlo Brighi, detto Zaclèn. In Romagna non si smetterà mai di ballare, nemmeno nel periodo fascista, che pur incentivando il radicamento di una tradizione popolare musicale legata a cori e gruppi folcloristici, segna un nostalgico ravvivarsi della passione per il valzer; nell’entroterra sono attive molte sale da ballo, si balla al Grand Hotel di Riccione e al Kursaal di Rimini e si diffonde in riviera la consuetudine di tenere serate danzanti negli alberghi: non poteva essere diversamente, dal momento che sono proprio quegli anni a vedere l’impulso del turismo di massa. Non si smette di ballare neppure durante la guerra: in pieno carnevale 1945 si ballava dappetutto, in cinema, teatri, circoli politici, case private, garage, palestre. La Romagna postunitaria e del ventennio fascista presenta, rispetto a quanto avvenuto nella tradizione di altre regioni italiane, fisionomie e percorsi da valutare non solo sotto l’aspetto specifico della tradizione popolare della musica da ballo, ma del suo intimo e costante intreccio con l’evoluzione storica, civile, sociale e politica del periodo. Periodo di grandi conflitti e contraddizioni ma anche di manipolazioni e interventi culturali che non trovano altrove riscontro.

La formazione e l’evoluzione della musica da ballo romagnola si presenta, per dirla con Franco Dell’Amore, come “una storia di infiniti plagi” che, tanto per cominciare, non ha alcun legame con la preesistente tradizione folclorica musicale e coreutica. Finalmente sarà chiarito, a romagnoli e non, come e perché la sua origine nulla abbia a che fare con le aie contadine e con la tradizione popolare. Risulterà altrettanto chiaro perché malgrado la sollecitudine, del resto sostenuta dal regime, profusa da autorevoli etnomusicologi come Balilla Pratella, nella raccolta e diffusione del patrimonio tradizionale, “i romagnoli, anziché farsi rappresentare da un autentico patrimonio musicale popolare che andava esaurendosi, hanno preferito scegliere un repertorio, giovane di qualche decina d’anni, certamente più accattivante e rispondente alle nuove emergenze mondane”. Del resto, anche i balli popolari diffusi in Romagna, a parte il saltarello, provenivano da altre aree regionali, come suggeriscono le denominazioni stesse: monferrina, bergamasco, furlana, padovanella. Il valzer, la mazurca e la polca arrivano nelle aie contadine dopo aver furoreggiato nei luoghi del ballo della riviera e delle aree urbane dove altre danze, importate dall’America, ne avevano soppiantato la moda e la consuetudine. Lo stesso Secondo Casadei ricorderà nel suo Diario di essere non poco debitore per la sua musica ai ritmi e alle innovazioni del jazz americano. Per dirla con Franco Dell’Amore “la musica da ballo romagnola ha avuto diversi padri a Vienna ed altrettanti zii d’America”. Così come ha percorso e abbracciato non solo generazioni ma dimensioni, ceti, appartenenze sociali diverse. Così come è penetrata in contesti, ambientazioni, territori eterogenei, dal litorale turistico e mondano, agli ambiti cittadini, all’entroterra rurale e contadino. Il processo di snaturamento e falsificazione della tradizione popolare è un fenomeno che distingue particolarmente la Romagna nel periodo fra le due guerre, attraverso l’identificazione della tradizione popolare con le cante, i cori, i gruppi in costume. A proposito di plagi. Il 26 aprile 1926 si tiene a Pievequinta, frazione di Forlì, una commemorazione di Carlo Brighi, a undici anni dalla morte; la cerimonia avviene sotto gli auspici del Sindacato Fascista di Forlì, l’orazione è affidata a Renato Pedretti, cultore di studi locali. Alla commemorazione partecipano cinquanta musicisti e capiorchestra dei migliori esecutori di musica da ballo dell’epoca. C’è di che domandarsi come mai, a regime inoltrato, cinquanta eccellenti musicisti, di appartenenza politica probabilmente non allineata, in una sede da poco strappata al circolo socialista, per ricordare uno dei più ferventi socialisti, si siano prestati ad una fuorviante consacrazione della musica popolare romagnola. Nella sua orazione, non priva di enfasi e di qualche prosopopea, Pedretti esprime opinioni sacrosante sulla musica di Carlo Brighi, affermando che fosse “cattiva critica” sostenere che la sua musica “fosse parto di un plagio, una abilità di sapere ordire e impostare frasi musicali di altrui creazione”, che i suoi tanti emulatori, provenienti da scuole e licei musicali, non riuscirono ad eguagliare l’autodidatta e che la musica di Zaclèn fu in breve tempo “atrocemente modificata e in mille modi disfatta”. L’innovazione, l’originalità, la popolarità della musica di Zaclèn stavano nella esecuzione e nella interpretazione di una musica funzionale al ballo. Tanto vi era riuscito da soppiantare in poco tempo la tradizione dei balli popolari. Credeva probabilmente nella sua musica non solo per vocazione ma come missione, come ci crederà Secondo Casadei, ostinatamente risoluto a proporla in un periodo in cui tutti l’avevano abbandonata. E anche la musica di Secondo Casadei, in tempi e situazioni diverse, sarebbe stata emulata nella fase di ascesa e di successo per essere poi manipolata e mistificata. Negli anni ’60 si definisce il “genere romagnolo”, il cui riconoscimento viene consacrato negli anni ’70, attraverso una “pentarchia – scrive Dell’Amore – non accertata e non da tutti accettata, composta da Secondo Casadei, Roberto Girardi in arte Castellina, Vittorio Borghesi, Carlo Baiardi, Silvano Prati. La musica da ballo romagnola diventa così il “liscio”, ovvero l’omologazione di un genere musicale”, a cui si affianca ben presto l’omologazione del ballo. Dai primi anni ’70 inizia il fenomeno di consumo massiccio, attraverso una politica di consenso e di mercato pari a quella di qualsiasi altro prodotto da spacciare: valzer, polche, mazurche, tanghi, diventano così tutti uguali, “appiattiti da una specie di qualunquismo musical populistico”. Tra la fine degli anni ’70 e primi anni ’80 l’industria del liscio comprende 4.000 orchestre, professioniste e semiprofessioniste; 5.000 sale da ballo dedicano al liscio almeno due serate settimanali; 30 milioni di ballerini le frequentano annualmente; ben 11 orchestre si chiamano Casadei, senza alcun legame di parentela, ma pronte a sfruttare il richiamo del nome. Secondo Casadei era scomparso nel 1971.

All’affollato universo di orchestre, scuole di ballo, case discografiche, edizioni musicali, emittenti, rubriche, programmi radiotelevisivi, saloni, fiere, locali, impresari, fans club, collezionisti, artigiani di abiti, strumenti, accessori, non corrisponde altrettanta vivacità di ispirazione, di creatività, di pensiero. Questo mondo più propenso alla estroversione, alla esibizione, ad espandersi piuttosto che a conservarsi e guardare a se stesso, non si è tanto curato di custodire quanto di evolvere e di adattarsi al cambiamento, poi di mantenere l’onda lunga della sua popolarità, e infine di resistere. Così la Romagna del ballo ha costruito la propria tradizione guardando non al passato ma al futuro.

La straordinaria diffusione del fenomeno, vissuto da molte generazioni come un istinto vitale secondo solo a quello di nutrirsi, è inversamente proporzionale alla percezione e al riconoscimento del suo statuto culturale e sociale; ha continuato a riprodursi e replicarsi senza preoccuparsi di innovare ed elevare la consuetudine, seppure la più diffusa e praticata in Romagna. E forse proprio in questo risiedono la sua forza e la sua debolezza: la forza di un inesausto radicamento, la debolezza di un’appartenenza che si è svuotata di identità, in cui da tempo tensioni e tendenze non solo giovanili faticano a trovare stimoli di attrazione piuttosto che avvertirne una più o meno consapevole e istintiva estraneità. La vastità del fenomeno e le sue molteplici implicazioni, la sua lunga durata senza soluzione di continuità, la mistificazione che se ne è operata rispetto agli esordi e all’evoluzione, la stretta connessione con l’aspetto commerciale e di consumo sono alcuni dei motivi di tale divaricazione. Etnomusicologi ed etnocoreuti non se ne sono occupati più di tanto, consapevoli delle origini colte e ravvisandone le commistioni e contaminazioni a volte irrimediabili e indistinguibili; poche formazioni musicali di qualità ne hanno riproposto versioni e repertori originali; anziché riconoscere alla musica da ballo romagnola una sua autonomia, dapprima mutuata e adattata ai gusti popolari, poi elevata a genere musicale vero e proprio, questo stile così inconfondibile, brillante, trascinante, è stato etichettato e propagandato come musica folcloristica, folclore romagnolo, musica popolare, liscio tout court, con lo stesso atteggiamento con cui durante il fascismo si erano avvallati come popolari i gruppi in costume, le cante, i cori; così il folclore romagnolo ha finito per identificarsi con modalità musicali e coreutiche che sotto l’egida della tradizione hanno svuotato, banalizzato, maltrattato il genere adattandolo e riadattandolo alle esigenze di impresa e di mercato sino a renderlo irriconoscibile.

“Il fulcro vitale del triangolo ballerino -dice Dell’Amore- ha gli estremi in Cesenatico, Savignano, Cesena ed il centro ombelicale, ma non geometrico, è sentimentalmente fissabile tra Sant’Angelo di Gatteo e Fiumicino”. A Fiumicino di Savignano era nato nel 1853 il capostipite, Carlo Brighi, che riassume la vicenda delle tante orchestrine nate nella seconda metà dell’Ottocento, di dinastie di musicisti, come gli stessi Brighi e Casadei, di orchestre note e apprezzate come quella di Romolo Zanzi, dei fratelli Fusconi -i Galvèn- e ancora di Legni, di Bavolenta, di Zangheri. La storia delle orchestre di Cesenatico è storia di intere famiglie imparentate fra di loro: i Gentili, i Gusella, gli Zoffoli, i Rossi, i Maltoni, i Battistini, i Fiammenghi, i Brighi. A Sant’Angelo di Gatteo nasceva nel 1906 Secondo Casadei, poi naturalizzato savignanese, contemporaneo di altri eccellenti capiorchestra e musicisti che non hanno eguagliato la sua notorietà. Come, ad esempio, il cesenate Aldo Rocchi, compositore e musicista, la cui orchestra debutta nel 1928, lo stesso anno di quella di Secondo Casadei. Viene poi il periodo della fondazione e dei “giganti”, a capo di famose ed eccezionali orchestre, come Vittorio Borghesi, Nervillo Camporesi, Franco Bergamini, Castellina Pasi, Ivano Nicolucci, Silvano Prati, questi ultimi due originari di Predappio, un’altra zona fertile di musicisti di talento.

E’ interessante e curioso venire a sapere che alcune norme degli antichi regolamenti del periodo napoleonico sono sopravvissute sino in tempi recenti, come il divieto di ballare tra persone dello stesso sesso, alla ballerina di rifiutare l’invito del cavaliere, al cavaliere di prendere la ballerina mentre balla con altri. E ancora l’etichetta del ballo, i suoi innumerevoli contesti e occasioni: osterie, caffè, fiere, mercati, cameroni, pescacce, circoli cittadini, club, leghe, circoli di partito, spacci di campagna, tendoni, festival, teatri, alberghi, palazzi, villini, piattaforme, pagode, stabilimenti balneari, dancing, balere. I luoghi del ballo, la cui consistenza era fatta di architetture, di arredi, di spazi (ricchi e sontuosi o modesti e improvvisati) e della varia umanità che li animava con gli incontri, i comportamenti, i sentimenti, hanno lasciato tracce effimere e occasionali -in qualche cronaca d’epoca, cartoline, fotografie, pubblicità- ma anche efficaci descrizioni giornalistiche, poetiche, letterarie. Un mondo scomparso, che ha travolto con sé consuetudini di svago, di divertimento, di socializzazione. Comportamenti e atteggiamenti che scaturiscono dal contesto del ballo come appuntamento rituale, calendariale, festivo per eccellenza, luogo di esibizione e di ostentazione, di emozioni e di sentimenti, di contese e gelosie, di piacere e sensualità, di clandestinità e trasgressione, di attrazione e passione, del corteggiamento e dell’innamoramento. Luogo di frequentazione per eccellenza del seduttore, del birro da balera, con tutto il corredo di ammiccamenti, approcci, frasari, gestualità, contegni, abbigliamenti, strumenti del mestiere. Lo stereotipo del gallismo e del seduttore romagnolo si allinea ad una visione tradizionale veicolata anche dai testi delle canzoni che esaltano i valori della famiglia e della terra, della campagna come luogo di conservazione della tradizione in opposizione alla fuorviante modernità cittadina. Canzoni come Io cerco la morosa, Burdela avèra, Il valzer degli sposati, La ven da la zité, sono un manifesto della reazione proprio nel periodo in cui la nuova generazione si stava scrollando di dosso pregiudizi e soggezioni secolari, che hanno segnato mutamenti irreversibili nei comportamenti, nell’etica, nella visione del mondo.

Anche controtendenze come questa ci dicono che l’evoluzione della musica da ballo subisce e asseconda ma contrasta, anche, cambiamenti epocali. Per quanto sia stata pronta e rapida ad avvantaggiarsi di novità e di innovazioni, ad aprirsi agli influssi, ai mutamenti, alle inclinazioni, in una incessante tensione al rinnovamento, tanto poi questi stessi atteggiamenti “estroversi” si sono tramutati in tendenze oppositive nel momento in cui si è assoggettata alle regole del mercato, del consumo, dell’ inflazione. L’ostinata dedizione dei suoi più appassionati creatori e interpreti, da Brighi a Casadei, a quelli che come loro hanno scelto di andare controcorrente rispetto alla scelta di professioni più appaganti e tranquille o all’abbandono di repertori che non incontravano più i gusti del tempo, trova poi soddisfazione e riscontro nella ripresa degli anni ’60, quando il genere si consolida e comincia a farsi impresa; si conferma nel periodo aureo degli anni ’70, che ne segna contemporaneamente l’irreversibile declino, seguito dal cambiamento di rotta degli anni ’80, dal distacco dalla tradizione e dell’avvento della musica di consumo.

In piena coerenza con l’interpretazione storica che ne fa una regione “inventata”, una regione che sino a poco più di un secolo fa non aveva confini, la tradizione popolare e folclorica romagnola non è costituita dagli apporti della cultura e della mentalità originarie ma da una serie di interventi intellettuali che hanno concepito di sana pianta forme e modelli di eredità folclorica nel primo ventennio del Novecento e, in maniera più definita e definitiva, durante il fascismo, quando l’immagine di Mussolini, del duce romagnolo, esigeva un solido e coerente retroterra tradizionale e culturale della sua terra natale. Di qui sono derivati i numerosi e ben noti stereotipi. La Romagna doveva in qualche modo imporsi alla ribalta creando radici mai esistite attraverso l’opera di intellettuali organici capaci di attribuirle distinzione e dignità. Rispetto ad altre tradizioni coreutiche ed etnomusicali, quella romagnola si afferma come una tradizione “importata”, dalla fisionomia più recente ma molto connotata, che si impone e va di pari passo con i fenomeni di modernizzazione. E’ fra Ottocento e Novecento, nel pieno dell’attività di Brighi, che avviene il processo di transizione dagli ambienti dell’alta società a quelli popolari della musica che diventerà genere e a sua volta tradizione. Non sarà la politica culturale del fascismo a trasformare quel coacervo di tradizioni regionali in patrimonio nazional popolare, ci riuscirà invece Raoul Casadei qualche decennio dopo, con il liscio, le orchestre spettacolo e la musica solare. Ma le orchestrine da ballo delle origini avevano ripreso le musiche della “sacra triade” (valzer, polca, mazurca), anche se la preferenza è andata abitualmente al valzer, riproponendole secondo modalità esecutive popolari; come tali si sono diffuse e così prepotentemente hanno incontrato il gradimento popolare da divenire infine fenomeno ed eredità popolari, se è vero che sono la consuetudine, l’appartenenza, la funzione sociale a connotare popolarmente una pratica. Che questa musica si sia dall’inizio adattata e consolidata negli ambiti collettivi, ricreativi, ludici, ma anche solenni, celebrativi, rituali di gruppi, di aggregazioni, di leghe, di associazioni, di circoli, di partiti politici, le attribuisce un valore aggiunto di solidarietà, di condivisione, di partecipazione che è appartenuto prevalentemente all’esperienza dei ceti popolari.

Parlare oggi di classi e di cultura popolare può far sorridere. A fronte di una vera e propria mutazione antropologica e sociale si possono attribuire al termine popolare significati di democrazia, di senso comune, di condivisione, di moda, di consenso, di adesione di massa. Se la cultura popolare -o meglio, se le culture popolari sono esistite, ed è vero che sono esistite, cerchiamo quantomeno di non disperderne il patrimonio, la memoria, la capacità di riconoscerle, conservarle e trasmetterle come una eredità viva, composita, testimone della memoria e del tempo.

Paola Sobrero (estratto dall’introduzione alla “Storia della musica da ballo romagnola 1870-1980” di Franco Dell’Amore, Pazzini Editore – Liscio@museuM, 2010)